DEBELLARE LA CONGIURA DEL SILENZIO
Davanti ad un suicidio, soprattutto con caratteristiche così drammatiche, si vivono sempre sentimenti di incredulità, sbigottimento, costernazione, sorpresa e, come ricorda Pavan, “quasi sempre si cercano delle cause specifiche”; i titoli dei giornali del resto ne danno una prova immediata: “morire a scuola a 14 anni, si uccide per un’interrogazione”, “incubo debiti, uccide la moglie e si spara”, “delusione d’amore a 14 anni, ragazzino sotto il treno.”
Emerge in tutti noi un bisogno di ricercare e riconoscere cause, responsabilità, una spiegazione convincente e per certi versi rassicurante per le nostre angosce.
L’atto suicidario è un fatto frequente nella storia dell’uomo, e particolarmente nella nostra valle, per lo più legato alla presenza di patologie depressive, spesso misconosciute.
In questo caso la causa sembra essere chiara: la perdita improvvisa ed inaspettata di una persona cara costituisce uno dei “life events” a più alto impatto destrutturante sul piano psicologico, anche se in psichiatria noi sappiamo che una causalità “diretta”, cioè una causa unica e sufficiente a determinare una patologia o un comportamento, non esiste quasi mai.
Dal punto di vista psichiatrico sembra di essere in presenza di un classico “suicidio allargato”, definizione introdotta nel 1911 da Strassman ad indicare i casi in cui il suicidio è l’azione primitiva e determinata, e l’uccisione dei familiari ad opera del padre o della madre suicidi avviene per non lasciare chi resta solo e senza aiuto.
Paradossalmente il coinvolgimento di un familiare, spesso un bambino, nel suicidio allargato rappresenta un fatto “altruistico”: il suicida porta con sé il bambino per salvarlo dal mondo iniquo, dalla tragedia dell’esistenza o dalla solitudine, come nel caso di Deborah.
Quasi un estremo atto d’amore di una mente sconvolta.
Al di là della “pietas” e dei sentimenti di vicinanza con la famiglia superstite che un fatto del genere provoca in tutti noi, allo psichiatra si chiede qualcosa in più, di provare a comprendere, non a spiegare certamente. Nel più grande rispetto della storia sua personale e della sua famiglia, vorrei provare a capire cosa possiamo “imparare” da questo evento noi tutti, famiglie, cittadini, psichiatri, istituzioni.
Certamente, anche se può apparire fin troppo facile dirlo ora, Deborah era una donna sicuramente a rischio. Due elementi innanzitutto, la recentissima perdita della persona più importante della sua vita e il periodo post partnum, che rappresenta sempre una fase molto delicata per una madre, che per di più si ritrova improvvisamente sola con un bambino di sei mesi. Non conosciamo nulla della sua personalità di base, dei suoi vissuti di giovane donna e madre, ma forse possiamo immaginare anche la condivisione di un tribolato periodo di assestamento del suo compagno, che usciva da una sua complessa storia familiare.
Un terreno e degli eventi assolutamente favorevoli per lo sviluppo di una depressione grave ed acuta.
Cosa si può proporre per offrire un aiuto così difficile a una persona che spesso non lo chiede neanche, ma di cui si intuiscono il disagio e la sofferenza? Ascolto, vicinanza, empatia, presenza, dialogo, anche se spesso quest’ultimo si riduce ad un monologo perché il sofferente è chiuso in se stesso, magari già riservato per natura e per costumi ambientali; appare distaccato, insensibile ai tentativi di aiuto e non è in grado di comunicare la propria sofferenza.
La famiglia rappresenta quindi la prima sede di aiuto.
Le famiglie proprie e di origine, e non pare il caso di quella di Deborah, spesso sono disgregate, disgregate emotivamente: convivono sotto lo stesso tetto ma non si parla di se stessi, ci si vergogna, non ci si ascolta, i sentimenti non circolano.
A volte in famiglia non ci si accorge della sofferenza, la si sottovaluta o la si nega; e quindi il passo successivo, la richiesta di un aiuto professionale tarda; il medico di medicina generale non viene coinvolto, la consultazione di uno psichiatra poi…il timore della malattia mentale…. dello stigma conseguente….quasi una congiura del silenzio.
Su tutto questo bisogna riflettere, senza l’illusione di sviscerare tutti i problemi del suicidio, gesto che spesso è ineluttabile, a volte “inguaribile”, quasi sempre difficilmente comprensibile, come l’animo umano.
DA “LA PROVINCIA DI SONDRIO” dell’11.8.2007 a proposito del suicidio allargato di una madre col piccolo figlio di 6 mesi.